THE BLACKBOARD

Il mio rapporto con la lavagna dello spogliatoio, al San Nicola...

E poi, dopo 4 anni, presi coraggio. Le paure e le timidezze si erano quasi sciolte del tutto, l’ambiente sembrava diventare più familiare e i tempi dilatati avevano quasi adempito al loro compito di disgelo. Socializzare e dialogare, non era più così complesso e imbarazzante come nei primi anni, quando la giovane età e il contesto sconosciuto producevano mille pensieri, diecimila complessi e centomila incertezze. Masticavo, seppur a fatica, bocconi ostici di dialetto barese, scherzavo con i miei compagni, cominciavo a comprendere le sfumature linguistiche ed emotive del gruppo. E l’effetto della acquisita sicurezza era un fremere inquieto alla mano destra che già da diverse settimane brulicava sottopelle. Perciò scrissi qualcosa del tipo “Mangia Palmiro, tanto sei magro”. Era una boiata sbattuta bianco su nero: non l’avevo scritta né a caratteri enormi, né al centro della lavagna ma leggermente defilata, verso il bordo destro. Volevo far ridere, o almeno tentare nell’impresa. E in più, volevo prendere il “possesso” creativo (che nessuno aveva) della lastra di ardesia inchiodata al muro la cui unica funzione era quella di segnalare orari di allenamento, comunicazioni societarie, schemi improvvisati. Mi è sempre piaciuta la lavagna: scrivere, cancellare e di nuovo scrivere: migliaia di mattinate scolastiche vissute davanti al nero opaco rettangolare, appunti, formule matematiche, teorie, il gesso consumato bianco ridotto all’osso e il suono acuto di quello nuovo, ruvido. Quante volte mi sono sporcato le mani di bianco e quanti ricordi! Vedermela li ogni giorno a qualche metro davanti al mio posto nello spogliatoio era un toccasana di memorie che sfioravano a tratti, il tempo dall’orizzonte nostalgico. E osservarla senza il coraggio di scrivere, vuoi per timidezza vuoi per educazione, era come sopprimere qualcosa che avevo dentro ma che non potevo esternare. Perciò mi limitavo a immaginare le possibilità insite nel mezzo, rendendo il dialogo che avevo con lei, muto. “Mangia palmiro tanto sei magro”. Non era un periodo luminoso per la squadra biancorossa che bazzicava nella melma incerta di un campionato ostico come quello cadetto. Mi spinsi ciononostante in uno sfogo umoristico impellente, che doveva essere dosato a piccole quantità, nella speranza che al resto della squadra piacesse l’idea di sorridere, senza provocare nessun tipo di risentimento. Qualcuno vista la battuta, lo fece, altri non abboccarono al mio spunto. Ripresi qualche giorno dopo con un “Cercasi guanti per Vito” sdrammatizzando la giornata storta del nostro portiere. Le antenne cominciavano a rizzarsi. Ai miei compagni piaceva ed io lo consideravo l’input giusto per concludere l’allenamento con il buonumore. L’avvicinamento a qualcosa di più elaborato fu graduale, la squadra intanto leggeva. Furono proprio i sorrisi, i gesti d’appunto e nel migliore dei casi le risate con annesso uno scambio di opinioni tra il serio ed il faceto che mi stimolarono a proseguire nella azione creativa intrapresa: iniziai a scrivere i voti con giudizi stupidi delle partitelle (Cavalli 4, assente per motivi familiari) elaborai domande per sondaggi assurdi interni allo spogliatoio, sempre con l’obiettivo principale di far ridere la gente. Andavo orgoglioso della linea comunicativa che avevo intrapreso: approfondiva un lato della mia personalità che non tutti conoscevano, aveva un peso superficiale nelle dinamiche della squadra e allo stesso tempo univa tanti se non tutti i componenti del gruppo in una terra immaginaria nella quale far convergere l’anima collettiva. E la cosa di cui andavo più fiero era che successivamente anche altri, spinti da un prorompente impulso di dire la loro si divertivano a scrivere. Per essere chiari: tutto ciò non aveva nulla a che fare con le onde positive e negative che condizionavano il trend della squadra e i conseguenti risultati domenicali, ma io l’ho sempre considerato il minuscolo pezzo di un mosaico che si inseriva, li, in mezzo ad altri migliaia, a formare un’immagine che fosse completa e definita. La lavagna divenne quindi il punto di incontro umoristico nel quale nacque la versione scritta e cancellabile dello sfotto da spogliatoio. Crebbe così la mia autostima, il mio vivere lo spogliatoio, il mio aprirmi al mondo.

Quanti gessi consumati…