GAZZI: "CORRO E SCRIVO SE SALVO IL PALERMO CHIAMO LYNCH"
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di Massimo Cecchini.
“Progetti, speranze, interessi, egoismi, violenza, disillusioni, ricordi di un tempo migliore. Chi pensasse che stiamo parlando della Serie A che si snoda ogni settimana davanti ai nostri occhi – ormai resi indifferenti dalla ripetitività – stavolta (per ora?) sbaglierebbe per eccesso. «La strada» che percorriamo è quella raccontata da Cormac McCarthy, nel suo romanzo apocalittico su un’umanità alle soglie della fine del mondo, che Alessandro Gazzi, a 34 anni, ci racconta dalla prospettiva solare di Palermo e alla vigilia del match contro un Torino in cui ha vissuto 4 anni intensi.
Gazzi, un Padre, un Figlio, una salvezza forse impossibile: perché questo libro? «L’ho letto quando mia moglie aspettava la mia prima figlia, Camilla. Mi ha emozionato molto e così è stato facile immedesimarmi nella storia, che però sento non solo dalla parte del Padre — quello che deve proteggere — ma anche da quella del figlio, che è chiamato a coltivare la speranza. Poi mi è piaciuta la sua scrittura così minimalista, che va al cuore delle cose. Per certi versi mi rassomiglia».
Lei è un calciatore particolare. Oltre che leggere, le piace anche scrivere e il suo blog — «Corro penso scrivo: storie da mediano» — è un «unicum» nel nostro calcio. Si sente un irregolare come i protagonisti del romanzo? «No, direi che sono un introverso. Ho il blog da circa un paio d’anni e in questo periodo ho effettuato un percorso che mi ha fatto scoprire questo canale comunicativo. Avevo letto del concetto di flusso e attraverso questa idea ho cominciato a frequentare una psicologa di Torino che studiava questi temi. Ho fatto un lavoro con lei sulla concentrazione che riguardava essenzialmente il campo, poi ha cominciato a stimolarmi sullo scrivere trovandomi delle qualità e così è nato il blog. Racconto spesso di calcio per far capire cosa può passare nella testa di un atleta durante una partita. Trovo sia una cosa che mi completi. Nel calcio sono un uomo di sudore, fatica, equilibrio, non un fantasista, e così quella creatività che mi manca cerco di esprimerla in maniera diversa. Le mie passioni in fondo mi aiutano. Tra l’altro, ho studiato un paio d’anni al Dams (Dipartimento di Arte, Musica e Spettacolo) e mi piacciono libri, cinema, musica. Ecco, su questo mi sento particolare. Diciamo che nello spogliatoio a volte sono un po’ assente, ma rispetto a quando avevo vent’anni sono migliorato e sto cercando di far crescere le mie abilità sociali, perché il mio carattere può essere sia un pregio che un limite. Anzi, più spesso è un limite».
Nel calcio però lei non è stato limitato. «Be’, come tutti i bambini sognavo di fare il calciatore, però non ho mai dimenticato ciò che mi disse mio padre, quando avevo 78 anni: “Guarda che solo uno su 6000 arriva a fare davvero il calciatore”. Io quell’esempio me lo sono sempre portato dentro, immaginandomi di essere negli altri 5999. Così ho sempre pensato che a un certo punto la selezione sarebbe stata talmente forte che mi avrebbe impedito di diventare un giocatore di Serie A e avrei cominciato a fare anche altro».
Nel libro l’apocalisse incombe: se arrivasse davvero, quali oggetti vorrebbe con sé? «Niente di particolare. Mi basterebbe la mia testa. Semmai cose pratiche tipo un coltello».
Per lei c’è stato un giorno in cui il mondo sembrava finire? «Dal punto di vista calcistico a vent’anni, quando volevo smettere. Era nel passaggio fra Treviso e Viterbo e mi ero fatto prendere troppo dalla frustrazione per una serie di cose: infortuni, delusioni su come stavo giocando, mancanza di fiducia da parte degli altri. Poi pian piano sono ripartito. Credo comunque che succeda a tanti calciatori».
Ma quando è stato coinvolto nell’indagine sul calcio scommesse a Bari, per cui — dopo il patteggiamento — è stato squalificato per tre mesi e 20 giorni, non è stata anche quella una specie di fine del mondo, la perdita pubblica dell’innocenza? «Guardi, in quel periodo ho sempre accettato gli eventi, cercando di farmene una ragione e provando a risolvere la situazione nel migliore dei modi. Il mio obiettivo principale era di tornare al più presto in campo e così ho agito di conseguenza patteggiando per omessa denuncia».
Ci pensa mai a quel periodo? E se potesse cambierebbe qualcosa? «Ogni tanto ci penso, ma sono cose che nella vita capitano. Bisogna accettarle. Ognuno agisce a seconda del mondo che ha attorno. Per questo non cambierei niente. A volte penso cosa succederebbe se tornassi indietro, ma il mio carattere e il mio modo di fare mi hanno portare ad agire così. Per questo non puoi dire: “Cambierei qualcosa”, perché le persone agiscono anche in base al carattere che si ha. Per questo io cerco di pensare solo a quello che succede sul campo e non guardo fuori».
Nel libro, oltre alla natura ormai matrigna, il vero pericolo per i protagonisti è rappresentato dagli altri uomini, che agiscono senza regole. Ma questo calcio di collusioni con la criminalità organizzata, auto bruciate, interessi privati messi davanti a tutto, non le pare viaggi su binari analoghi? «Il gioco ormai è solo all’interno del campo. Queste situazioni non c’entrano niente col calcio, lo sport ha altri valori e questi deve seguire».
Ma perché voi — che siete i protagonisti principali — non vi esponete mai nella denuncia? «Io mi espongo sul campo da gioco cercando di dare l’esempio ai miei compagni e ai più giovani. Poi queste situazioni vanno al di là della forza che un calciatore può avere. Non possono essere risolte individualmente, ma come sistema».
Lei e tutti i calciatori della Reggina, per la storica salvezza in Serie A del 2006-2007 con 15 punti di penalizzazione, siete stati insigniti della cittadinanza onoraria di Reggio Calabria: non le sembra un po’ esagerato? Parliamo di calcio… «Be’, bisogna vedere anche il contesto. Per Reggio fu un evento storico, fece crescere l’entusiasmo in una città che aveva una miriade di altri problemi. A ripensarci, paragonare un evento sportivo a ciò che accade tutti i giorni c’è una bella differenza, ma in quel momento fu una situazione molto emotiva».
Restiamo sul calcio in generale: vero che sia arte o è retorica da bar? «È chiaramente arte, e non solo ad alti livelli. C’è arte anche in quello di provincia, con la relativa ambizione. Certo, in quello di alto livello è più facile individuare il gesto artistico».
Ha un mito nel mondo del calcio? «No, direi di no. Mi ritengo una persona fortunata perché ho lavorato con persone di altissimo livello, che mi hanno gratificato moltissimo, però se penso a qualcuno da incontrare sceglierei più due registi come Terrence Malick e David Lynch. Sono due personaggi particolari dal punto di vista creativo».
Quali film sceglierebbe dei loro? «Direi “La sottile linea rossa” di Malick e “Mulholland Drive” di Lynch. In fondo penso che le forme d’arte possano essere utili anche allo sport. L’immaginazione può essere messa al servizio dell’organizzazione di squadra, come l’orchestra nella musica».
A proposito di orchestre e direttori, è stato allenato da due futuri c.t., Conte e Ventura. Come sono? «Hanno un modo di fare diverso e complementare. Conte ha una mentalità della vittoria feroce, che risalta in tutto ciò che fa, Ventura insegna più l’essere. Il primo ha la vittoria come unico mantra, il secondo invece vuole soprattutto vincere nel profondo. Sono orgoglioso di averli avuti».
Lei è nato lo stesso giorno di Buffon: come si fa a fermare la Juve? Roma e Napoli possono farcela? «La Juve mi sembra difficile da fermare, ma a volte basta poco. Comunque le rivali stanno facendo grandi cose e a volte i colpi di scena accadono».
Restando sui colpi di scena, se il Palermo riuscirà a salvarsi occorrerebbe celebrarlo. Se diventasse un film, a chi lo farebbe girare tra Malick e Lynch? «Intanto pensiamo a far punti col Toro, ma un’opera del genere la darei sicuramente a Lynch. È più visionario e sa sondare meglio le zone dell’inconscio». In effetti, alla luce dei mille psicodrammi avvenuti, forse è proprio quello che occorrerebbe”. Questa l’intervista integrale ad Alessandro Gazzi rilasciata oggi su “La Gazzetta dello Sport”.