Partite mentalmente complicate...
Concentrati. Ale, concentrati. Dio santo cerca di concentrarti. Entro in campo, da qualche settimana, con un solo pensiero: la ricerca ossessiva della concentrazione. Calpesto i fili d’erba, un passo, due passi, cercando di aggrapparmi alla loro forma sottile, al loro colore. Osservo i tifosi e ascolto i cori sbraitati, gli spettatori nella tribuna centrale sono sbuffi colorati sputati nel grigiore del Garilli. C’è un cronometro digitale, sui tabelloni elettronici che circondano il rettangolo di gioco. Io sono qui. Io sono qui? Piacenza Bari, autunno 2006. Respiro. Non sento nessun odore nell’aria e neanche il fresco penetrare delle particelle d’ossigeno mi risveglia dal torpore mentale che mi aggredisce, o meglio mi violenta. Concentrati cazzo. L’entrata in campo delle due squadre, sono alla torturante ricerca di me stesso, qui ed ora. Non riesco ad uscire dalle nebbie cognitive che mi torturano. Sembra che qualsiasi ragionamento, azione, reazione avvenga sempre con qualche centesimo di secondo di ritardo: come faccio a giocare se la reattività mentale è ai minimi termini? La percezione delle cose avviene. On delay. Anche i movimenti del corpo, delle gambe, delle membra. Mentre saluto gli avversari, la mia testa sembra quasi ammassare informazioni, tante, troppe. Un cumulo di input che intasa, travasa, impantana sinapsi, rallenta flussi. Non sarà una grande partita. L’arbitro fischia l’inizio, della mia agonia. So già che non mi divertirò: tutti i disagi, tutte le insicurezze e preoccupazioni lavorative che nell’ultimo periodo si affacciano sul mio schermo emotivo le trasformo con un linguaggio del corpo apatico e svogliato. La somatizzazione dello stress si riversa tutta nei polpacci, sì, lì dietro tra ginocchia e caviglie i fasci muscolari sembrano sciogliersi come il burro fuso. Le gambe cedono ad ogni minimo evento poco distante da me: un contrasto, un dribbling, qualsiasi cosa. Non reggo la pressione (pressione di che cosa?) e appena il pallone si avvicina ai miei piedi, la paura si insinua nei miei pensieri e il rifugio ideale diventano gli inesistenti angoli bui della mia psiche. Vorrei non essere qui, in questo momento, su questo campo e cerco di fuggire, in ogni attimo buono, dal presente. Affrontare la realtà, seppur elementare appare un incubo. Cosa ci può essere in una partita di calcio di così tanto spaventoso? Il livello di attenzione è minimo, sfoglio pensieri sparsi. Ed io ho già toccato due volte il pallone, un passaggio intercettato e un pallone deviato in fallo laterale. Sembra trascorsa una vita. Penso ad altro, ad esempio al fatto che non vedo l’ora finisca questa partita, scocca il novantesimo e poi tutti a casa; e nello stesso pensiero un altro di forza uguale e contraria che mi rigetta sul rettangolo e su tutte le mie paure. Ma oggi, oggi proprio non ho voglia di giocare.
C’è ancora quel cronometro a bordo campo, digitale. Non resisto. Volgo gli occhi verso quei numeri. Quei numeri. Sono la mia crocifissione mentale.
3 minuti e 43 secondi.
Verso il ventesimo del secondo tempo, vengo sostituito.